Sommario.
1.Il dibattito antropologico tra fede e scienza. I.1. Il difficile dialogo tra fede cristiana e scienze positive I.2. La complessa relazione tra l’uomo, immagine di Dio, e le scienze umane. II. La sfida umana della post-modernità II.1. L’uomo senza casa II.2. L’uomo senza volto. II.3. L’uomo senza cuore . III.Anthropologia cordis. III.1. Il “pathos” di Dio all’opera in Dio. III.2. La riscoperta della misericordia-compassio.
Vorrei introdurmi con una citazione di M. Heidegger (+1976) quando scrive «Nessuna epoca è riuscita, come la nostra, a presentare il suo sapere intorno all’uomo in modo così efficace e affascinante, né a comunicarlo in modo tanto rapido e facile. È anche vero, però, che nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l’uomo. Mai l’uomo ha assunto un aspetto così problematico come ai nostri giorni».[1] Per non lasciare un senso di amarezza critica, vorrei richiamare un passo di Hannah Arendt (+1975) che, commentando un passo di Agostino, lo traduce così: «Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare».[2] Il senso della vita e della storia umana è sempre un ricominciare, un trasformare il circolo naturale del nascere e del morire in un processo umano di continua rifondazione. Citando ancora la Arendt, direi che, se «le nuove generazioni nascono sempre in un mondo vecchio»,[3] ogni epoca – in particolare la nostra – ha il dovere di inventare vie nuove.
1. Il dibattito antropologico tra fede e scienza
L’antropologia odierna è oggi al centro di un dibattito tra mentalità tecnico-scientifica, filosofia umanistica a sfondo ebraico-cristiano, tradizione cristiana ed i grandi sistemi etico-filosofico-religiosi dell’Asia. In questo dibattito, la teologia cristiana svolge un ruolo minore, praticamente inesistente, perché segnata da un peccato di origine. Il trattato di antropologia cristiana nasce relativamente tardi, rispetto agli altri trattati; nasce con Suarez (+1617) quando la nascente antropologia laica si stava separando dalla fede sotto la spinta di scoperte geografiche che avevano obbligato a toccare con mano l’esistenza di persone prive di ogni riferimento al Dio di Gesù: il cristiano appariva un caso particolare di una umanità qualificata nella sua dignità dalle esperienze della ragione e della libertà. Da qui il suo mancato dialogo con la cultura ed il suo attestarsi sui temi della grazia e del peccato e su quelli aristotelico-tomisti dell’anima e del corpo.[4]
Ovviamente la teologia parlava della persona umana anche prima delle scoperte geografiche ma ne parlava in contesti particolari quali il commento alla Genesi, il sacramento del battesimo, l’etica dei comandamenti, i novissimi e via dicendo: la persona umana non era un punto sintetico apprezzabile, in grado di raccogliere attorno a sé la multiformità del dato teologico. La stessa trattazione della persona umana era intitolata De Deo creatore. Ancora nel 1957, Karl Rahner (+1984) parlava della antropologia teologica come unerfüllte Aufgabe der Theologie,[5] cioè come di un compito non ancora realizzato dalla teologia, e dieci anni più tardi rincarava la gravità della denuncia imputandone la ragione alla frammentarietà della trattazione antropologica, dispersa in molti trattati. [6]
1.1. Il difficile dialogo tra fede cristiana e scienze positive
Il dialogo più difficile resta quello con la scienza. Ci stiamo sempre più rendendo conto che le possibilità offerte oggi dall’innovazione scientifica e tecnologica sono tali da apportare sostanziali cambiamenti a molti quadri di riferimento concettuali e valoriali:
a nessuno sfugge che esse ingigantiscono le responsabilità morali di tutti, nei confronti delle generazioni presenti come di quelle future.
Scienza e fede appaiono due metodi di ricerca della verità. Non è facile chiarire quali siano gli ambiti di queste due modalità di conoscenza; non è facile perché entrambe hanno come oggetto la totalità dell’esperienza umana sia pure in forma diversa; se assumiamo come indicazione che il mondo della scienza è quello del cosmo e che il suo cammino rimane centrato sulla soggettività della persona, possiamo dire che la fede è aperta ad un “ulteriore” e che legge ogni cosa in questa prospettiva. Possiamo dire che una forma di “riduzionismo metodologico” fa parte della scienza: non si interessa che di quanto rientra nell’ambito sensibile; una simile prospettiva è legittima e necessaria ma, non di rado, è stata trascesa e trasformata in una negazione categorica. La storia ha conosciuto questa contrapposizione dei due saperi: mentre la scienza procede per ipotesi e verifiche, dubitando e indagando, la fede mette al centro la fiducia in Dio, l’abbandonarsi a Lui.[7] Sullo sfondo di questa diversità, la scienza prima e l’illuminismo poi avevano ricondotto la verità all’evidenza razionale: anche la dignità della persona umana andava vista come una conquista della ragione. Respinta al di fuori della razionalità, la fede restava un terreno segnato da logiche autoritarie ed impositive.
A questa sfida la comunità credente aveva risposto in termini sostanzialmente apologetici, richiamando i limiti metodologici della scienza; aveva sostenuto che essa insegna il “come” dell’universo mentre la fede ne evidenzia il “senso ultimo”. Ne era venuta una radicale incommensurabilità tra scienza e fede: diverse per metodo, scienza e fede si svelavano del tutto eterogenee. Questa vicendevole estraneità era ben presto degenerata in totale indifferenza, in una ripartizione del sapere in due comportamenti stagni, privi di ogni comunicazione tra loro. La diversità era degradata in chiusura.
Il nostro tempo chiede un ripensamento di queste conclusioni; lo esigono gli studi di K. Popper (+1994), T. Kuhn (+1996) e P. Feyerabend (+1994) sulla scienza e sulla sua metodologia: questi autori hanno portato alla fine del positivismo scientifico ed al recupero della interdipendenza delle diverse forme di sapere; la coscienza del carattere probabilistico delle leggi scientifiche ha permesso di concludere che la conoscenza scientifica è certo esatta ma anche incompleta. Da qui il recupero del limite della scienza e della sua apertura ad altre forme di sapere fino ad invocare, con I. Prigogine (+2003),[8] una nuova alleanza tra scienza e filosofia. Ampliando questa sua ipotesi, molti teologi pensano ad una nuova stagione di rapporti tra scienza e fede; se ne possono vedere esempi nei lavori di F. Capra (+1991)[9] e di P. Davies[10] che si aprono a tematiche che vanno ben oltre il puro dato scientifico. Del resto scienza, filosofia e fede sono forme di sapere universale, aperte alla totalità del reale, sia pure sotto una propria prospettiva formale.
Il dibattito resta comunque tuttora difficile: basta pensare all’astrofisica e al dibattito sull’intelligent design,[11] agli studi di fisica molecolare e alla scoperta del “bosone”,[12] all’ ingegneria genetica ed alla bioetica.[13] Al di là dello scientismo, per nulla scomparso, il dato più positivo è la rinata volontà di un dialogo che non si fermi alla diversità del concetto teologico di «creazione» rispetto a quello scientifico di «universo», «cosmo» o «natura». Superata l’accusa di una fede antropocentrica che avrebbe legittimato una civiltà predatoria e distruttiva dell’equilibrio del cosmo, siamo ormai nell’ambito di un vivace dibattito tra fede e scienza.[14] Bisogna comunque riconoscere che la teologia si trova oggi a dover inseguire un dialogo troppo a lungo disertato: il cosmo è oggi pensato come un universo in espansione, popolato da galassie simili alla nostra ma che si allontanano dalla terra a velocità elevatissime.[15] Il cosmo è sempre più pensato come un processo evolutivo, come un sistema aperto capace di autoregolazione.[16]
Il risultato più importante di questo dialogo è stato la ripresa di una «teologia della natura»; completamente diversa dalla “teologia naturale” del passato, questa va intesa come «interpretazione della realtà conosciuta con l’esperienza alla luce della divinità già nota».[17] Legata ad un quadro interdisciplinare, questa branchia della teologia si avvale di una metodologia positivamente aperta al sapere scientifico e dialogica: «non si tratta di riproporre il vecchio argomento di convenienza […]. Si tratta, invece, di attenersi al livello epistemologico della problematica e di chiedersi se il dono della fede non ha una funzione illuminante anche per lo scienziato e per la cultura scientifica: l’accesso al punto di vista altrui non fa perdere la propria specificità ma conduce ad arricchire la propria, originale capacità di osservazione e di sintesi».[18]
Da questa teologia della natura attendiamo una rinnovata teologia della creazione ed un effettivo discorso sulla ecologia, sulla armonia tra l’uomo e il mondo. Alcuni tentativi hanno segnato effettivi passi in questa direzione; penso a W. Pannenberg[19] che parte dalla non-necessità, cioè dalla contingenza del mondo intesa come categoria biblico-religiosa, a P. Gisel[20] che inizia invece il suo discorso dal Dio che fa esistere; entrambi poi risalgono così a quel Dio che precede ed è indipendente dal mondo così da pensare il cosmo come una totalità integrata nel volere divino. Se J. Moltmann[21] legge questa volontà come Weltimmanenz Gottes, secondo una linea che abbandona la diversità di Dio dal mondo per vedere quest’ultimo come la sua dimora, come la sua shekinah, Ruiz de la Peña (+1996)[22] e Ganoczy[23] mantengono il concetto di creazione sforzandosi di legare la nozione di creatio continua con quella di evoluzione. I temi del male da una parte, dell’origine e della fine del mondo completano queste tematiche. In una parola abbiamo qui un cantiere aperto del quale si cominciano appena ad intravvedere i primi frutti.
La domanda che possiamo porre è se l’orizzonte scientifico sia veramente in grado di porsi la questione dell’intero, della totalità; il suo concentrarsi su alcune caratteristiche dell’esperienza per poi universalizzarle gli ha permesso di cogliere la complessità del cosmo e la sua articolazione in diversi livelli, gli ha permesso di postulare la necessità di un quadro complessivo nel quale tutto riceve un senso e tutto va spiegato ma solo nel quadro della esperienza fisica. Questo è un limite ma ogni forma di pensiero partecipa di questo limite: si pensa all’interno di un contesto ma il bisogno di quadro rimanda ad una ulteriorità che è indispensabile per pensare unitariamente il tutto. La scienza che si è costituita liberandosi dalla metafisica, scopre così di averne bisogno per dare un senso compiuto al proprio pensiero. L’ipotesi del “Trascendente” non è formulata dalla scienza come ipotesi scientifica ma come ipotesi razionalmente utilizzabile per esplorare quell’intero che la scienza riconosce come presente fuori e oltre se stessa.
1.2. La complessa relazione tra l’uomo, immagine di Dio, e le scienze umane
Se il dibattito con le scienze positive è difficile, quello con le scienze umane è altrettanto difficile. In termini descrittivi, si può dire che le scienze umane sono quelle discipline che studiano l’uomo e la società, affrontando obiettivamente e storicamente i fondamenti della vita sociale, le relazioni sociali, le loro istituzioni e lo sviluppo storico delle società umane. [24]Tra queste scienze vi è la psicologia e la pedagogia, la sociologia e l’etnologia, il diritto e le scienze politiche, la psicanalisi e la linguistica. Tempo fa, avevano al centro la persona umana quale “oggetto” dei loro studi ma poi, progressivamente, sono andate riscoprendo la soggettività umana.
W. Dilthey (+1911), in particolare, separerà nettamente le scienze della natura da quelle scienze umane che indicherà come “scienze dello spirito”:[25] a differenza delle scienze della natura, queste ultime hanno per lui come oggetto quel fenomeno storico-sociale che è l’uomo vivente. Mentre le scienze naturali hanno a che fare con dati estranei alla coscienza dell’osservatore, le scienze umane affrontano fenomeni spesso vissuti dal ricercatore stesso; ne viene una comprensione che non si fonda sulle categorie di causa, di ipotesi, di modelli, di leggi ma piuttosto sulle nozioni di vita, di scopo, di significato, di valore. Di particolare interesse è la fenomenologia che svilupperà la convinzione che la coscienza umana è sempre intenzionale e, per questo, va analizzata come sempre rivolta ad un contenuto, desiderato e cercato.[26]
Un simile cammino ha portato ad un netto distacco dall’antropologia dell’uomo immagine di Dio;[27] Ne verrà una concezione della vita e della persona che inevitabilmente entra in un complesso rapporto con il mondo cristiano. Questo aveva normalmente analizzato il mondo vitale della persona secondo una prospettiva morale che analizzava la problematica della libertà in ordine ai temi del merito e del peccato e che riconduceva le questioni della emotività alla dinamica della concupiscenza o, più in genere, delle “passioni”. Il distacco dal quadro biblico-cristiano si muove verso una filosofia della vita che, nella sua globalità, abbandona la logica dell’adattamento all’ambiente – propria dell’evoluzionismo – per pensarsi invece come attività. Se F. Nietzsche penserà questo processo dinamico come volontà di potenza, la fenomenologia lo analizzerà nel quadro della intenzionalità della persona e M. Scheler lo aprirà apre ad una prospettiva sociale ed etica.
Da parte sua, il cristianesimo sosterrà che amare Dio significa partecipare al suo stesso atto d’amore per tutte le creature e, quindi, amare il mondo e l’umanità in Dio. In questa linea si può collocare anche il personalismo cristiano, un insieme di autori che riconoscono la centralità della persona spiegandola in termini spiritualisti; probabilmente si può vedere nella filosofia dell’amore, fondata in termini personalistici, uno dei vertici dello sviluppo di queste prospettive. Penso in particolare a M. Nédoncelle (+1976)[28] e a L. Lavelle (+1951).[29] Il loro pensiero, nettamente credente, spiega probabilmente l’interesse di K. Wojtyla per queste correnti: sarà alla base del suo lavoro Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale.[30]
L’altro punto di arrivo sarà invece lo strutturalismo che, nella sua ricerca di un punto di vista unitario, porrà al centro della sua interpretazione i concetti di “struttura”, di “sistema”, di “insieme” visti come indicativi di un modello latente nelle cose stesse, capace perciò di spiegarle ma non dipendente da esse. Paradossalmente si può dire che siamo di fronte ad una filosofia della vita senza soggetto umano; la ricerca di una comprensione globale della vita non termina ad una persona ma ad un sistema anonimo.[31] In pratica si tratta di una rinnovata forma di positivismo scientifico: rispetto al positivismo classico, la svolta strutturalista sta nel fatto che analizza i fenomeni umani dal di dentro, servendosi di contesti motivanti ma che non hanno nulla a che vedere con la soggettività umana.
Su questo sfondo, si imporranno alcune precise indicazioni antropologiche; tra le più note porrei alcuni lavori tra i quali spicca l’Anthropologie structurale di C. Lévi-Strauss (+2009).[32] Il suo intento resta l’impegno per ricercare e analizzare le strutture sociali, cioè le strutture che danno ordine alla vita dei gruppi umani: sono strutture comuni a tutto il genere umano dato che dipendono dalle strutture inconsce ed universali della mente ma si diversificano nei contenuti e nella capacità di osservazione del reale dei gruppi. Per vivere socialmente, le persone devono dare ordine alle loro esperienze e questo avviene normalmente attraverso opposizioni binarie: destra e sinistra, sole e luna, maschio e femmina, vita e morte, bene e male e via dicendo. I quattro volumi dei Mythologiques ne sono un esempio. La tensione tra “natura” e “cultura” e la sua varia interpretazione rappresenta una ulteriore ragione di formulazioni antropologiche.
Senza fare un elenco dei diversi autori e delle diverse posizioni vorrei richiamare qui due autori che, a titolo di esempio, presento per la loro importanza nel proprio ambito. Il primo è Arnold Gehlen (+1976).[33] Proprio perché la persona umana ha tra le sue principali caratteristiche il prendere posizione su se stesso, è fondamentale non disperderne la comprensione in una multiformità di indicazioni ma offrirne una formula globale, interpretativa dell’insieme. Figlio del novecento, l’autore sa bene che non esiste una visione complessiva in grado di presentare la globalità dell’esperienza umana; non esiste perché l’essere umano, colto nella sua storicità, «è per qualche verso “incompiuto”, non “costituito una volta per tutte”».[34] Il senso di questa osservazione è che l’unità dell’antropologia deve essere il frutto di una pluralità di metodi, che analizzano modi diversi dell’esistere umano.
Normalmente l’antropologia di Gehlen è presentata come antropologia biologica – lui stesso la chiama così – ma questo perché ritiene che «nell’Uomo si dia un progetto globale della natura, un progetto affatto unico, mai altrimenti tentato».[35] Per Gehlen la persona umana è Mängelwesen, è un essere carente, non adattato ad un preciso ambiente; questa mancanza l’ha obbligato ad aprirsi al mondo per costruirne uno che si adattasse alla sua vita; ha bisogno del mondo, ma per renderselo familiare lo deve adattare, assoggettare. «L’appropriarsi del mondo è un appropriarsi di se stessi, la presa di posizione verso l’esterno è una presa di posizione verso l’interno, e il compito posto all’Uomo in uno con la sua costituzione è sempre sia un oggettivo padroneggiarsi verso l’esterno sia un compito verso se stesso. L’Uomo non vive, bensì conduce la sua vita».[36] In altre parole l’antropologia di Gehlen è una sintesi di natura e cultura ma finisce per finalizzare l’uomo al suo rapporto con il mondo: il finalismo religioso gli risulta ignoto.
Il secondo è Ferdinand de Saussure (+1913)[37] considerato fondamentale negli studi moderni di linguistica. Dobbiamo a lui una netta distinzione tra lingua e parola; nel linguaggio occorre distinguere tra dimensione sociale e dimensione personale, tra “lingua” e “parola” e “lingua”: mentre la lingua è costituita dal codice di strutture e di regole che le persone ricevono dalla società e che non sono modificabili a piacere, la parola è il modo personale, creativo o ripetitivo, con cui un soggetto si serve di quel codice per esprimere il proprio mondo, il proprio vissuto.[38] In una simile prospettiva la dimensione essenziale è la lingua mentre la parola è accidentale; il realismo di chi – come Gen 2,19-20[39] pone un rapporto obiettivo e diretto tra la parola e la realtà – appare superato: l’«immagine linguistica» non avrebbe nessun rapporto con il «concetto» di riferimento ma solo con il sistema linguistico.[40]
A questo scopo elaborerà la distinzione tra significante e significato.[41] Il significato è ciò a cui il segno linguistico rimanda mentre il significante è il mezzo utilizzato per esprimerlo. Pur essendo tra loro inseparabili – come le due facce di uno stesso foglio – il rapporto tra i due è arbitrario, non nel senso che ognuno lo possa costruire a piacere ma nel senso che è immotivato, privo di un necessario rapporto con il significato espresso. Il limite che Saussure ravvisa nella linguistica a lui precedente sta nell’aver privilegiati l’aspetto evolutivo della lingua – l’etimologia e le trasformazioni linguistiche – rispetto alla sfera sistematica. La sua valorizzazione dell’aspetto sociale del linguaggio farà del suo pensiero una sorta di anticipo dello strutturalismo.
L’importanza di questi studi è evidente dato che la “lingua” è lo strumento decisivo sia per configurare il cammino di una comunità alle prese con il mondo, con la propria vita e con le ragioni della sua coesione, sia per delineare il rapporto tra la realtà e la rappresentazione simbolica che ne fa la mente. La lingua organizza l’esperienza umana della vita e dà forma al pensiero co cui la persona vi abita. In poche parole una lingua è lo strumento più semplice e più appropriato per partecipare alla vita di una comunità ed esserne membro attivo. Da qui la povertà umana di chi non conosce a fondo la propria lingua e il nodo educativo scolastico del rapporto tra lingua materna e lingua scolare. L’inculturazione consiste nell’aiutare le persone a decodificare linguaggi che provengono da un mondo diverso dal loro per vivificarli in una logica di fedeltà creativa; questo impegno tocca la dimensione umana ma sta al cuore stesso di una fede che, per comunicarsi, si affida a persone in cui la fede e la Parola sono diventate una cosa sola, un’unica vita: testimoni più che maestri.
2. La sfida umana della post-modernità
Proprio la questione della totalità di quanto è verificabile e della rinascita del senso del limite e del bisogno del trascendente permette di addentrarsi nel mistero della persona umana. Henri del Lubac la sintetizzava così: valde profundus est ipse homo.[42] Cercare di offrirne un quadro sarebbe rischioso. Possiamo dire che, già nel 1950, R. Guardini presagiva la nascita di una nuova concezione della vita e del mondo;[43] sarà J.F. Lyotard – nel 1979 – a parlare di “condizione postmoderna”.[44]
Parlare della post-modernità ci permette di addentrarci nelle unquiet Frontiers of Modernity,[45] cioè in quelle esperienze di persone che si sentono continuamente sfidate dalla fragilità esistenziale, dalla futilità del quotidiano e dalla mediocrità della vita reale. Provando ad arrischiare una breve sintesi di questo pensiero, vorrei richiamare le due diverse interpretazioni offerte prima da G. Vattimo e R. Rorty e poi da Z. Baumann e da Ch Taylor.
Il cuore del pensiero di Vattimo è l’abbandono della razionalità, tradizionale via di ogni cammino verso la verità dell’uomo e del Trascendente; accogliendo la precarietà, la molteplicità e la contraddittorietà di una realtà effimera,[46] fa di questo pensiero debole la chiave per una convivenza meno violenta e più democratica dove la perdita della pretesa della verità della verità si accompagna con la diffusione di atteggiamenti di pluralismo e di tolleranza.
Da parte sua Rorty propone una migliore intesa con quella comunità nella quale l’individuo vive:[47] questa comunità è una realtà post-metafisica che non prova rimpianti per le verità del passato né desiderio di nuove certezze. L’uomo post-moderno è una persona sola che non avverte il bisogno di quella rassicurazione offerta da Dio: gli bastano quelle “mezze verità” che lo abilitano a convivere con se stesso e la propria mancanza di fondamenti. Se qualcosa gli può servire, è una etica laica ma non una fede. Praticamente la post-modernità che questi autori riconoscono e valorizzano è una rivoluzione del mondo spirituale dell’Occidente, una riorganizzazione del suo universo culturale, una sua diversa coerenza mentale volta ad una nuova coesione sociale. Una simile prospettiva non può mancare di interpellare la fede: impone di ridefinire il significato sociale e culturale della fede oggi, in questa storia.
Diversa è invece la posizione di Z. Baumann e di Ch. Taylor: la loro presentazione della post-modernità ha un suo centro nel ripensamento della fede cristiana in questa cultura. Baumann[48] Nel 1993 Z. Baumann pubblica Postmodern ethics, un testo nel quale sostiene che la moralità non dipende dalla società come vorrebbero Rorty e Vattimo ma, al contrario, la moralità è il fondamento della vita sociale. Secondo Baumann il giudizio etico compete alla persona in quanto tale e non può essere delegato a nessuno; riprendendo Lévinas, sostiene che nell’incontro con l’«altro» è insita una responsabilità incondizionata, una originaria istanza etica che si oppone al relativismo. L’incontro con l’altro è una esperienza che sfida il potere e la libertà dell’io: mettendo in questione il puro spontaneismo, l’incontro con l’altro diventa il fondamento di un nuovo, originale rapporto etico con la realtà.
Da parte sua, Ch. Taylor[49] costruisce il suo lavoro come una lunga analisi storica della secolarizzazione e, tramite essa, vi coglie la presenza di una costante antropologica che sostituisce il precedente ordine socio-culturale centrato su Dio con due realtà immanenti: il controllo razionale della natura e l’espressione autentica e disinibita della propria soggettività. A suo modo di vedere, non solo queste due costanti antropologiche hanno ormai acquisito un’assolutezza storicamente pari a quella del teismo ebraico-cristiano ma hanno portato le persone a porre in modo nuovo la questione della fullness, cioè di quella pienezza e ricchezza interiore che sono il luogo simbolico di un loro integro essere-al-mondo. Questa fullness, questa pienezza umana ha mantenuto la dignità della persona ma, invece di fondarla su Dio, l’ha descritta secondo una concezione immanente che, per altro, è anche alla base di quella fragilità che accompagna oggi la nostra vita.[50]
Sono queste le unquiet Frontiers of Modernity a cui Vattimo e Rorty aderiscono radicalmente; mentre Baumann fa appello ad un’etica, Taylor ritiene che il cristianesimo non debba esprimere una concezione antagonista a questa società proclamando verità assolute e legandole a una fondazione metafisica e naturale ma debba accettare di collocarsi all’interno di questo pluralismo come una delle possibili scelte che le persone possono fare. Se una simile indicazione può avere un valore sociale e pubblico per il suo rimando a quella testimonianza della vita che la fede sa incarnare, è difficile riconoscergli anche un valore personale; un ordine politico che accetti la finitezza umana sa che questa produce pluralità di posizioni più che uniformità, possibilità di errori più che certezze assolute, scelte opinabili più che verità intoccabili. In questo contesto pluralista Taylor pone la questione della fullness: questo termine fa riferimento a quella pienezza di vita, a quella ricchezza interiore, a quella profonda riconciliazione che i credenti riportano all’incontro con Dio ed i non-credenti ad una sorta di autenticità umana. Se la fede può coltivare il sogno di una rinascita, di un “born-again”, è in questa sfida tra credenti e non-credenti sulla autenticità umana che la fede deve inserirsi e mostrare il suo valore. Nell’incontro con la fede l’umana esperienza della fragilization e la sua aspirazione alla fullness devono trovare la loro soluzione. La missione della Chiesa andrebbe oggi intesa in base a questa prospettiva.
Il punto basilare alla cui luce raccogliere il mistero della persona umana è il contrasto tra ricerca della totalità ed esperienza della frammentazione; la percezione della precarietà può forse dar valore alla corporeità, alla sensibilità ed alla intuizione ma rischia di lasciar nell’oscurità l’identità ultima della persona. Alla base di questi percorsi sta una totale separazione tra natura[51] e cultura che finisce per sostituire la metafisica con il supporto tecnologico. Al centro vengono così la robotica e le biotecnologie: prolungare la vita, ritardare la vecchiaia, lenire il dolore, programmare le caratteristiche fisiche ed il temperamento del nascituro, ricombinare il DNA spostando parti di informazioni genetiche da una specie all’altra, creare nuovi alimenti, fabbricare nuove specie di viventi, dare la vita e la morte: questa utopia sta diventando realtà.
Nasce così il post-umano, una realtà che per un verso ha generato una serie di interrogativi sul futuro dell’uomo contemporaneo e, per un altro, ha visto una prima convergenza sulla difesa della dignità della persona e la ricerca di un’etica condivisa tra studiosi di diverse convinzioni.[52] Questi problemi sono enormi; qui vorrei solo offrire un primo quadro di queste problematiche e presentare queste situazioni-limite e, per farlo, mi atterrò ad un comodo, forse incompleto, schema di un mio collega.[53]
2.1 L’uomo senza casa
Il primo ad usare questa espressione è stato M. Buber (+1965). Filosofo, studioso delle Scritture e della tradizione dei hassidim, ne Il problema dell’uomo[54] osservava con acutezza la questione antropologica si ripropone sempre come decisiva in quelle epoche in cui l’uomo perde la sua ambientazione acquisita, perde cioè una posizione «sicura» nel mondo: la perdita di certezze in grado di favorire un tranquillo ritrovarsi nell’universo lo costringe a riproporre la domanda su se stesso, sulla sua essenza, sul senso della sua vita. Ci sono epoche – sostiene il nostro autore – in cui l’uomo ha una sua dimora, Epochen der Behaustheit, ed epoche in cui invece ne è senza: è Hauslosigkeit, cioè senza casa. Essere senza casa significa essere senza risposte soddisfacenti per i principali problemi dell’esistenza. La nostra è una di queste epoche. A conferma, basterebbe registrare il confronto tra il testo di J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo [1946] ed il lavoro praticamente contemporaneo di M. Heidegger Lettera sull’umanismo, del 1947.[55] Del tutto ateo, pur in presenza della negazione di Dio, l’umanesimo di Sartre conclude alla affermazione della coscienza e della responsabilità umana in una sorta di disperato ottimismo. Heidegger invece prende decisamente posizione contro queste tesi e sosterrà che la riduzione dell’essere all’ente ha finito per subordinare ogni cosa alla soggettività e che, di conseguenza, ne è venuta una centralità del mondo e del dominio scientifico con una invasiva presenza della scienza che ha distrutto ogni senso di sacralità. Da qui la sua conclusione sulla necessità di un ritorno all’essere senza soggiogarlo; in altre parole il nodo dell’umanesimo e della libertà sarebbe metafisico e non ideologico.
Va da sé che quanto abbiamo detto sul post-umano va ben oltre queste posizioni. Il post-umano implica una profonda rivoluzione spirituale: il frammento prende il posto della totalità, l’originalità del singolo quello dell’insieme, la contrapposizione quello dell’unità; persa la memoria storica di un passato comune, l’unica realtà è quella del presente. Ma proprio il presente riporta al centro una sfida per la nostra inadeguatezza: la crisi economica mondiale, la guerra senza termine del Medio Oriente allargata all’Afghanistan, i sommovimenti della primavera araba, i drammi della Somalia e di tutto il Corno d’Africa, l’esplosione del fondamentalismo religioso non possono più essere ridotti a semplici episodi ma chiedono una nuova diversa interpretazione.[56]
In questa prospettiva si ritorna a parlare di un “nuovo realismo”.[57] È un tema che anche Benedetto XVI ha richiamato in Verbum Domini 10[58] motivandolo però in termini decisamente cristologici. La problematica culturale è invece soprattutto la presa d’atto di un cambio culturale in atto sotto la spinta di dati incontrovertibili: la convinzione che la realtà sia socialmente costruita e indefinitamente manipolabile in vista di un futuro migliore e che, in questo cammino, la verità e l’oggettività siano nozioni inutili conosce oggi una netta battuta d’arresto. L’affermazione del pensiero debole e la convinzione che la metafisica sia inutile e ormai superata cozzano contro la necessità di un discernimento della storia, chiarendo e distinguendo ciò che è naturale e ciò che è culturale: vi è qui un nuovo spazio per un’etica ed una politica che non dovrebbero fare a meno della filosofia.
Al momento mi sembra che i dati assodati non siano molti ma che, nello stesso tempo, tutt’altro che inutili. Penso in particolare al post-colonialismo ed alle esigenze che ha finito per proporre. La bengalese Gayatri Chakaborty, analizzando il progetto che sottostava all’impero britannico, concluderà che la englishness è una sindrome imperialista e razzista che ha contaminato l’incontro tra le culture mondiali;[59] le sue tesi aprono uno spazio per una valorizzazione di culture finora subalterne. L’indiano Homi Bhabha, tramite un’analisi critica, ha fatto emergere i limiti di una storia coloniale che si vorrebbe grandiosa, aprendo così la stagione di una nuova coscienza della diversità culturale, della autorità sociale e della discriminazione politica.[60]
La cultura post-coloniale è un ambito teorico-pratico che ripensa i sistemi della conoscenza e del potere in atto nel passato ma in vista del presente. Oggi questo impegno incrocia forme di globalizzazione dove le ragioni profonde del colonialismo – cioè subalternità politica, egemonia commerciale e tecnologica dell’Occidente, identificazione della civiltà con la cultura occidentale – si sono mescolate a conflitti locali, alla corruzione di élites politiche e ad una violenza mondializzata fino a generare forme di neocolonialismo. Prenderne coscienza significa recuperare una larga disinformazione, proponendo una rinnovata sensibilità etica ed una consapevolezza culturale in grado di sviluppare una rinnovata dinamica di giustizia e di pace.[61] Al di là della pretesa della salvaguardia di una identità collettiva ottimale, che si vorrebbe occidentale e cristiana, l’insieme di queste realtà chiede un profondo ripensamento della vita cristiana e dei suoi compiti apostolici ed una ricerca di sviluppo sostenibile anche attraverso modelli alternativi.
2.2. L’uomo senza volto
Dobbiamo a E. Lévinas (+1995)[62] una piena critica alla chiusura egocentrica oggi largamente dominate: tutto ruota intorno ad un “io” che guarda ogni altra realtà come esterna o, al massimo, gli conferisce un ruolo strumentale che lo mantiene a disposizione del soggetto stesso. Ripiegato su se stesso, sul proprio “io”, lo sguardo umano resta rivolto verso il basso, verso le cose, verso il possedere; in una simile vita l’apertura all’altro, la responsabilità e l’amore per altri non è nemmeno pensabile. In realtà, già M. Buber aveva ricordato che la persona non giunge a se stessa che nel dialogo con il “tu”; andando oltre, Lévinas richiamerà il rischio che il soggetto si prenda cura dell’altro piegandolo ai propri interessi e formulerà la sua tesi del volto come epifania, manifestazione dell’altro.
Il volto di cui parliamo è l’altro nella sua carne, nella sua corporeità e nella sua storia; nello stesso tempo, è l’altro nel suo farsi parola, nel suo essere rivelazione di un’alterità che resiste al nostro potere di dominarlo e, nella sua libertà e nella sua povertà, instaura una prossimità che si erge solida contro ogni pretesa di assimilarla a quanto già conosco. Nel suo volto, l’altro non è visto da me ma si rivela nella sua assoluta libertà, nel suo inafferrabile rivelarsi come capace di rimandarmi oltre me stesso. Il volto – scriverà Lévinas – non è fatto dai dati che somatici che pure lo compongono; la vera natura del volto, il suo segreto, sta nella interpellanza che mi rivolge che è, insieme, richiesta di aiuto e possibile minaccia.[63] Risvegliato dal volto dell’altro, il pensiero vi incontra una irriducibile differenza che non si piega alle dinamiche impassibili della conoscenza; l’accesso all’altro è direttamente etico: interlocutore della nostra responsabilità, l’altro chiede amore, non quella conoscenza che ha nell’interesse la sua sorgente ed il suo criterio. Non può essere solo pensiero di qualcosa o qualcuno ma esige di diventare pensiero per qualcosa o qualcuno.
Incontrare un altro è ritrovarsi con una responsabilità, è scoprirsi coinvolto in una esigenza di risposta: prima di ogni mio assenso, prima di ogni patto o contratto. Nell’incontro con l’altro scatta una relazione che si produce come domanda di accoglienza e di bontà e che, come tale, interpella la mia libertà; segnato dal comandamento non uccidere, l’incontro è spazio di apprendimento e di educazione: di fronte all’altro posso tutto e, nello stesso tempo, a lui devo tutto, devo il concreto cammino della mia umanità. Il volto è spoglio, è nudo perché è offerta di sé ed è richiesta di accoglienza e di amore.
Il mondo umano è tenuto insieme da questi fili dove il confine tra apertura e comunicazione, tra scoperta dell’altro e responsabilità verso di lui, tra attenzione e giustizia, tra cura dell’altro e prepotenza su di lui è sottile e facilmente mistificabile. Parlare di un uomo senza volto è parlare dell’uomo incapace di incontrare l’altro ed incapace – in ultima analisi – di incontrare l’Altro, cioè Dio. Qui l’attenzione non si rivolge tanto all’ateismo classico ma ad una sorta di disinteresse etico e di interpretazione della vita che si raccoglie attorno ad un codice di valori centrati sull’individuo.
L’autore che ha dedicato una serie di studi a queste tematiche è Christopher Lasch (+1994).[64] Con la problematica del narcisismo, Lasch mette a fuoco un periodo della storia occidentale, in particolare quello che copre gli anni settanta e ottanta; sono gli anni segnati dalla caduta della tensione politica, dal culto del corpo e dall’ossessione della vecchiaia e della morte, dalla liberalizzazione sessuale e da forme esasperate di edonismo. In questo modello sociale coglie una sorprendente alleanza tra il liberismo ed il libertarismo; i movimenti libertari nati dai movimenti della fine degli anni sessanta, con la loro pretesa di abolire un ordine borghese autoritario e repressivo, avrebbero offerto alla società dei consumi – secondo Lasch – tutte le giustificazioni e gli alibi culturali di cui questa aveva bisogno. Le vittime di questa inattesa alleanza sarebbero state soprattutto due: la famiglia ed una pesante trasformazione culturale. La famiglia, naturale argine contro ogni banalizzazione della vita, è rimasta sola a difendere l’importanza della responsabilità e del sacrificio, dello spirito comunitario e del rimando della vita ad un senso ultimo e religioso mentre la trasformazione culturale ha visto il trionfo dei modelli televisivi, la cultura del tutto-facile e del tutto-subito, la rimozione vittimistica degli insuccessi ed il rifiuto di responsabilità onerose.
Una società senza volto, incapace di misurarsi con i veri problemi della vita, finisce per polarizzarsi o attorno ad un ottimismo progressista che nega ogni limite o attorno ad una visione tragica che perde il senso della meraviglia e della fiducia nella bontà della vita. Nasce così una società funzionale alla conquista del potere da parte di èlites che, gestendo una massiccia intromissione dello Stato nella vita privata, conducono alla perdita di identità individuali e collettive in cambio di un facile appagamento consumistico e di una deresponsabilizzante società di massa controllata e gestita da imponenti burocrazie statali. La centralità sociale è oggi occupata da un “io” bloccato su se stesso che incontra un mondo mediatico fatto di apparenze e superficialità, di realtà virtuali quando non illusorie, che incontra una realtà levigata che non graffia e non introduce ad una reale esperienza della vita.
Una società senza volto è una società non accogliente, non ospitale: è quanto sperimentiamo a fronte della massiccia mobilità che tocca oggi gran parte del mondo.
Il mio paese – l’Italia – nei primi decenni del novecento ha conosciuto una forte migrazione verso l’America; verso gli anni sessanta ha visto una grande migrazione interna, dalle regioni del sud a quelle del nord-Italia ed oggi è al centro di tutte le ondate migratorie che vanno dal sud a nord e da est a ovest. Dovremmo essere esperti di questo problema ma in realtà siamo disarmati di fronte a decine di migliaia di giovani e di donne che cercano lavoro e chiedono sensibilità e attenzione per i loro diritti, di fronte a un esercito di baby-immigrati che si affacciano al sistema scolastico, Stiamo imparando sulla nostra pelle che pregiudizi, generalizzazioni e giudizi spregiativi servono ad uno sfruttamento umano e lavorativo e promuovono metodi di controllo quasi sempre negativi. Soprattutto fanno crescere un clima sociale di sfiducia tra le persone, deprezzano valori come la solidarietà ed offrono ragioni a forme aggressive e violente di tipo xenofobo; di fatto vediamo crescere la paura per la diversità più che valorizzarne ricchezza e potenzialità. Gli stessi migranti sono oggi diversi; i migranti di seconda generazione vivono la loro condizione in modo diverso e, spesso, aiutano a coltivare il sogno di una città che aiuti tutti a crescere ed a crescere insieme. È la nostra difficile scommessa.
2.3. L’uomo senza cuore
«Forse è venuto il tempo – scrive Marko Ivan Rupnik – in cui si può riscoprire il cuore come luogo dell’integrazione, come luogo in cui l’uomo è già intero, non frantumato, smembrato. […]La vera integrazione avviene solo nel cuore, cioè in un contesto relazionale cui partecipano tutte le dimensioni della persona, da quella affettiva a quella razionale, da quella volitiva a quella religiosa».[65].Il nostro tempo conosce infiniti crimini commessi contro i bambini, contro le donne, contro l’amore; prendendo atto di queste dinamiche non mancano autori che hanno messo l’accento sul dominio del cinismo.[66]
Un tempo senza cuore è un tempo senza misericordia, cinico, spietato, privo di pietà e di mitezza. Come spiega E. Wiesel, le vittime stanno in silenzio perché non possono parlare; sono le generazioni successive che, a partire dalla memoria ferita, possono formare una coscienza socio-culturale, se non addirittura politica. In questo impegno i cristiani non dovrebbero essere secondi a nessuno: non dovrebbero esserlo perché il loro Dio – così si presenta in Es 34,6-7; Sal 86,15; 103,8 – è un Dio «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato». Questa prospettiva deve accompagnare la vita e la ricerca del credente. Ancora nel lontano 1967, lo psichiatra E. Minkowski (+1972) scriveva che «l’uomo è fatto per ricercare l’umano».[67] Era come dire che cerchiamo una vita che sia più della nostra stessa vita, una vita ricca di valori, di pienezza e di continuità.
Si potrebbe osservare che una simile ricerca cozza contro quella precarietà che il post-moderno fa continuamente valere ma non è difficile osservare che è figlia più del nostro tempo, della nostra cultura che della nostra esistenza. Appartiene a questa organizzazione consumista ed edonista della vita l’aver disarticolato i tessuti sociali e comunitari dell’esistenza per sostituirvi comunità etniche, egoismi regionali, forme di xenofobia e di razzismo. Ne è venuta una massificazione mercantile e disumanizzante che ha finito per indicare come unico criterio etico un egoismo individualista; di fronte ad una simile società serve una svolta profonda, liberante e luminosa.
Andando al fondo della questione, molti pensatori hanno indicato la radice ultima di questo dramma nella assunzione dei criteri borghesi:[68] l’aver assunto il commercio e lo scambio mercantile come il criterio ultimo della vita umana e della sua organizzazione sociale ha orientato l’intera vita sociale su percorsi di selezione e di esclusione più che su cammini di solidarietà e servizio. Per questo va segnalata una corrente di pensiero che, rifacendosi all’originaria realtà dell’esistere umano, ha cominciato a pensare un mondo di relazioni personali e sociali costruite in base all’esperienza del dono.[69] In termini antropologici il donare ha una profonda valenza simbolica: lungi dall’essere lungimiranza di interessi, è espressione di altruismo e di solidarietà, di gratuità e di generosità. La stessa reciprocità, che pure vi appartiene, non può esprimersi né con lo sdebitarsi restituendo subito un altro dono né offrendo poi un dono di ugual valore. In pratica il dono introduce una maniera festosa e positiva di intendere i legami sociali.
Porlo alla base delle relazioni umane e sociali significa ripensarli in un quadro nuovo che comprende gioia di stare insieme e vicendevole misericordia, compassione e perdono, accoglienza e volontà di pace. Questi atteggiamenti, lungi dal ridursi a semplici reazioni emotive dicono la volontà e l’impegno per cambiare le cose. Si tratta di un impegno umano dove una calda affettività si accompagna ad una forte spiritualità ed entrambe incamminano verso una dinamica antropologica che ha rappresentato il dono radicato nelle origini dell’umanità.
Tra gli autori che hanno provato a sviluppare una simile antropologia, richiamo soprattutto Roberto Mancini, docente di filosofia teoretica presso l’Università di Macerata.[70]’Quando il dono impegna l’esistenza, il dono diventa relazione e cura della sua qualità; se non si vuole che questo atteggiamento si arresti alla superfice esteriore, bisogna recuperarne la vera sorgente: la creaturalità umana. La creaturalità comporta infatti una relazione con l’Altro, una relazione con quel Dio che ci accompagna con cura materna e paterna. viver. Cogliere nella nostra vita l’attesa di questo Altro e viverne l’esperienza comporta vivere la propria esistenza come dono per il bene degli altri; se un credente ne può cogliere la mistica profondità, tutti possono avvicinarvisi attraverso quella solidarietà e quel servizio all’altro che l’amore sa motivare e giustificare. Rimettere un simile atteggiamento al centro della vita sociale è riportare un mondo senza cuore alla sua verità.
3. Anthropologia cordis
Le ultime osservazioni ci hanno già introdotto in questo terzo, ultimo momento; qui vorrei solo richiamare alcuni spunti. Il primo riguarda quel Dio alla cui azione creatrice e salvifica ci siamo appena rifatti. Il teologo Ratzinger, analizzando lo sviluppo storico del discorso su Dio vi coglierà un progressivo impoverimento. A suo parere due dati sono basilari in ogni percezione biblico-cristiana di Dio:[71] la sua unità/unicità e la sua relazione salvifica nei confronti del mondo umano. Ora, se l’unità divina ha trovato il suo baluardo nella nozione metafisica di “natura”, l’azione divina di salvezza – in ultima analisi rimandante alla nozione metafisica di “relazione” – non ha conosciuto lo stesso sviluppo. La nozione di “relazione”, al seguito del pensiero di Aristotele, è stata collocata e mantenuta tra gli accidenti.
Il suo pensiero in proposito non lascia dubbi: «accanto alla sostanza si trova anche il dialogo, la relatio, intesa come forma ugualmente originale dell’essere»;[72] questa prospettiva è a suo parere talmente importante da permettergli di osservare: «vi è qui una autentica rivoluzione del quadro del mondo: la supremazia assoluta del pensiero accentrato sulla sostanza viene scardinata, in quanto la relazione viene scoperta come modalità primitiva ed equipollente del reale. […]Bisognerà dire che il compito derivante al pensiero filosofico da queste circostanze di fatto è ancora ben lungi dall’essere stato eseguito».[73]
Ritrovo la medesima valutazione in K. Hemmerle (+1994) quando osserva che «gli elementi distintivi dello specifico cristiano non hanno rinnovato durevolmente né la precomprensione del senso dell’essere né l’impostazione dell’ontologia nel suo complesso».[74] Anche Balthasar (+1988) concorderà con questi giudizi quando, nel quinto volume di Gloria, denuncerà una preoccupante separazione tra l’orizzonte razionale e quello teologico: «se la ragione afferra soltanto l’essere quale suo concetto primo ed illimitato, resta esclusa ogni forma di anticipazione sull’autorivelazione del Dio libero».[75]
3.1. Il “pathos” di Dio all’opera in Dio
In questa direzione occorre recuperare l’importanza dei sentimenti in Dio, tradizionalmente letti in termini antropomorfici. Sarà S.D. Goitein, sulla base di una particolare lettura del nome divino JHWH, a presentare per primo Dio come l’Appassionato;[76] ma toccherà ad Abraham J. Heschel (+1972) mostrare la povertà di un linguaggio costruito sulla impassibilità e mostrare l’importanza che i sentimenti hanno in Dio.[77] Studiandone la personalità nelle scritture del profetismo biblico, valorizzerà la presenza della dinamica affettiva del suo agire; distinguendo tra “pathos” e “passioni”, rivendicherà l’importanza dei sentimenti: «il pathos divino è l’unità dell’eterno e del temporale, del significato e del mistero, del metafisico e dello storico. È la vera base del rapporto tra Dio e l’uomo, della correlazione tra Creatore e creazione, del dialogo tra il Santo di Israele e il suo popolo».[78]
Il pathos non è una tempesta emotiva che annulla la visione e le energie della persona ma è la partecipazione dell’intera personalità divina al suo volere: il pathos non disturba ma rinforza l’impegno di realizzazione del disegno di salvezza. Moltmann abbraccerà pienamente la concezione di Dio come Dio del pathos e, polemizzando con la presentazione di un Dio apatico, risalirà dalla sofferenza crocifissa del pathos divino alla storia trinitaria di Dio come l’unica in grado di renderle pienamente ragione: «alle “opera trinitatis ad extra” rispondono fin dalla creazione del mondo le “passiones trinitatis ad intra”»[79]. Ne verrà una sottolineatura della storia della salvezza come unica, vera chiave per la comprensione di Dio;[80] Moltmann, in particolare, ne ricaverà una concezione trinitaria del Dio crocifisso.
3.2. La riscoperta della misericordia – compassio
In questo contesto possiamo inserire e mettere al centro la misericordia, una virtù-chiave della anthropologia cordis su cui va oggi crescendo un grande interesse.[81] Il tema della misericordia non è più ormai un tema di spiritualità cristiana; come mostra il lavoro curato da Horst Groschopp,[82] la misericordia è declinabile anche nelle dinamiche tipiche della dignità umana e, conseguentemente, dei diritti umani; in una situazione di disumanità, l’impegno umanistico si trova a dover affrontare non solo i tradizionali ambiti educativi del mondo infantile e giovanile ma anche le complesse realtà degli anziani, delle devianze, degli emarginati, degli hospice con persone terminali e via dicendo.
Sotto la spinta del buddismo, la misericordia o “compassione” è diventata un tema decisivo anche nel dialogo interreligioso; basta pensare alla teologia minjung della Corea.[83] In questa prospettiva la storia di sofferenza e di alienazione di alcuni gruppi e di alcuni popoli è vista come emblematica dell’intera condizione umana, come condizione di dolore e di sofferenza in una certa misura inseparabili dalla vita. In dialogo con questa realtà, si fa strada un sapere teologico lontano dai dogmi ma capace di raccontare la storia di Gesù come criterio biografico e dialogico delle vicende che la moltitudine sta vivendo; non abbiamo qui una ripresa del cristianesimo occidentale ma l’affacciarsi di una religione politica suscitata dalla speranza incarnata da Gesù.
In modo nitido, W. Kasper ha legato la dimenticanza della misericordia e la sua trattazione matrignesca alla tradizionale concezione metafisica di Dio: quella critica colpisce una pseudo-misericordia che non integra la giustizia sorpassandola ma piuttosto la nega. La misericordia – scriverà Kasper – «va concepita come la giustizia specifica di Dio e come la sua santità»;[84], da essa deriva un nuovo modo, liberante e giustificante di parlare di Dio. Non meraviglia perciò che J.B. Metz abbia fatto della compassione il programma mondiale del cristianesimo in un’epoca pluralista.[85] Su un simile sfondo, si può ben dire che la misericordia è il centro di una “anthropologia cordis” e che questa è il programma di una pastorale rinnovata.
In proposito vorrei solo aggiungere due osservazioni. Prendo la prima dal ciato lavoro di Kasper quando confronta due figure di discepoli come due modi di rapportarsi a questo vangelo d’amore. I due discepoli sono Giovanni che, stando al testo di Gv 13,25, reclina il proprio capo sul cuore di Gesù e Tommaso che al contrario, sempre secondo Gv 20,25, si rifiuta di credere. Confrontando queste due figure, Kasper osserva che è la fede, solo la fede, ad introdurre entrambi ad un rapporto diretto con Colui che è la sorgente della nostra vita e della nostra pace.[86] La seconda osservazione riguarda l’importanza e la crisi dello stato sociale, il più grande sforzo moderno di accogliere e sostenere le persone in difficoltà. Senza entrare in tematiche sociali ed in questioni legislative, vorrei solo sottolineare che non è possibile nessuna valorizzazione della misericordia senza una cultura della misericordia. L’attuale riduzione economica della vita sociale e politica ha portato ad una riduzione dell’umano: solo un’anthropologia cordis in grado di declinare insieme misericordia e giustizia, diritto e perdono, sofferenza e speranza potrà diventare fonte di ispirazione e di trasformazione di questa società. Questo dovrà essere il nostro primo compito.
Gianni Colzani
[1] M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica (1929), Silva, Milano 1962, 275-276.
[2] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), Bompiani, Milano 1964, 31991, 182. Il passo di Agostino a cui si ispira è quello del De Civitate Dei 12, 20, 4: Hoc ergo ut esset (initium), creatus est homo ante quem nullus fuit.
[3] H. Arendt, «La crisi dell’educazione» (1958), in A. Kaiser (ed.), La “Bildung” ebraico-tedesca del Novecento, Bompiani, Milano 22006, 398-399.
[4] Su questa storia si veda G. Colzani, Antropologia cristiana. L’uomo: paradosso e mistero, Dehoniane, Bologna 22000. In pratica Suarez darà ampia divulgazione alle tesi di Caietano che, poco prima, aveva reinterpretato Tommaso alla luce della nozione di “natura pura” e del “doppio fine naturale e soprannaturale” dell’uomo.
[5] K. Rahner, «Anthropologie. III: Theologische», in LThK I (1957), 622.
[6] K. Rahner, «Antropologia teologica» (1967), in Sacramentum mundi. I, Morcelliana, Brescia 1974, 272-284; vi sostiene che una antropologia teologica «in quanto tale, cioè come unità originaria e complessiva, non è stata ancora elaborata nella teologia cattolica» (ivi, 272). In pratica l’antropologia era dispersa nei trattati De Deo Creatore, De Gratia e De peccato originali senza una obiettiva, organica unificazione.
[7] . La formulazione più aspra di questo contrasto si ha là con W. Weischedel che, utilizzando il testo di Gen 13,9, descrive l’estraneità tra fede e pensiero con le parole di Abramo che segnano la separazione tra i suoi pastori e quelli di Lot: se tu vai a sinistra, io andrò a destra; se tu vai a destra, io andrò a sinistra (W. Weischedel – H. Gollwitzer, Credere e pensare. Due prospettive a confronto, Casale Monferrato, Marietti 1982, 25).
[8] I. Prigogine – I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1993. Con una immagine icastica, alcuni diranno che la scienza è muta mentre la filosofia è cieca: la prima è muta perché vede il mondo ma non ne sa dire il senso mentre la seconda è cieca perché dice il senso del mondo ma non lo sa vedere. La metafora è presente nel testo del biologo R. Riedl, Die Spaltung des Weltbildes. Biologische Grundlagen des Erklarens und Verstehens, Parev, Berlín 1985 che la applica ai rapporti tra scienze naturali e scienze umane e sociali; la conclusione ovvia è un invito alla interdisciplinarietà.
[9] F. Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1987; F. Capra – R.A. Steindl, L’universo come dimora. Conversazioni tra scienza e spiritualità con Th. Mathus, Feltrinelli, Milano 1991.
[10] P. Davies, Dio e la nuova fisica, Mondadori, Milano 1984; P. Davies, La mente di Dio. Il senso della nostra vita nell’universo, Mondadori, Milano 1993.
[11] L’Intelligent design è una forma mitigata di creazionismo, costruita attorno ad un Dio creatore che non ha molto a che vedere con il Dio cristiano; su queste teorie si veda Stephen C. Meyer, Darwin’s Doubt. The Explosive Origin of Animal Life and the Case for Intelligent Design, HarperOne, New York 2013; William A. Dembski, Intelligent Design. The Bridge between Science and Theology, Intervarsity Press, Downers Grove 1999; William A. Dembski – Jonathan Wells – William S. Harris – Jon A Buell, The Design of Life. Discovering Signs of Intelligence in Biological Systems, Foundation for Thought and Ethics, Dallas 2008. Il Card. Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, in un breve articolo del New York Times (07 luglio 2005) interverrà sulla tematica. Senza risalire a Dio, questioni simili sono trattate anche sotto il tema del “principio antropico in John D. Barrow – Frank T. Tipler , The Anthropic Cosmological Principle, Oxford University Press, Oxford – New York 1986; F. Bertola – U. Curi (eds.), The Anthropic Principle. Proceedings of the Second Venice Conference on Cosmology and Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1994; B.J. Carr – M.J., A. Masani, Il principio antropico, in G.V. Coyne – M. Salvatore – C. Casacci (eds.), L’uomo e l’universo. Omaggio a Pierre Teilhard de Chardin, Vatican Observatory, Città del Vaticano 1987, pp. 1-27.
[12] Il bosone di Higgs, più noto come particella di Dio, era stato teorizzato nel 1964; scoperto il 4 luglio 2012 nel corso degli esperimenti del progetto ATLAS presso il CERN di Ginevra, la scoperta è stata ufficializzata il 6 marzo 2013.
[13] Sulla genetica si veda B. Lewin, Il gene, Zanichelli, Bologna 2006; T. Brown, Genomi, Edises, Napoli 2003; J. Dale – M. Von Schantz, Dai geni ai genomi, Edises, Napoli 2004; M. Ceccarelli – V. Colantuoni – G. Graziano – S. Rampone, Bioinformatica. Sfide e prospettive, Franco Angeli, Milano 2006; E.F. Keller, Il secolo del gene, Garzanti, Milano 2000; E. Boncinelli, E., Genoma: il grande libro dell’uomo, Mondadori, Milano 2001; S. Buiatti, Lo stato vivente della materia, UTET, Torino 2000.
[14] La cosmologia con cui la teologia si era tradizionalmente misurata, era la cosmologia meccanicistica. Alla sua origine stava la sintesi tra la concezione copernicana del cosmo e il modello di scienza impostosi con Galileo: si veda A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano 1970. Ne verrà la centralità del moto quale principio di spiegazione dell’universo concepito appunto come meccanismo in moto. L’attuale modello di universo è il risultato soprattutto di tre fondamentali dati: l’apporto della termodinamica, la teoria della relatività e la fisica quantistica. Provando ad integrare quanto la fisica atomica dice circa gli elementi costitutivi del mondo e quanto l’astrofisica indica a proposito delle galassie e dei sistemi di galassie, si è giunti alla concezione del mondo come universo in espansione, popolato da galassie simili alla nostra ma che si allontanano dalla terra a velocità elevatissime.
[15] S. Bergia, Dal cosmo immutabile all’universo in evoluzione, Bollati Boringhieri, Torino 1995; M. Cini, Un paradiso perduto. Dall’universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi, Feltrinelli, Milano 1994; S. Hawking, Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, Rizzoli, Milano 1992; F.J. Dyson, Infinito in ogni direzione. Le origini della vita, la scienza e il futuro dell’uomo, Rizzoli, Milano 1989.
[16] G. Altner (ed.), Die Welt als offenes System. Eine Kontroverse um das Werk von Ilya Prigogine, Fischer-Tascenbuch, Frankfurth a. M. 1986; E. Jantsch, Die Selbstorganisation des Universums. Vom Urknall zum menschlichen Geist, Hanser, München – Wien 1979; S.N. Bosshard, Erschaft die Welt sich selbst? Die Selbstorganisation von Natur und Mensch aus naturwissenschaftler, philosophischer und theologischer Sicht, Herder, Freiburg i. Br. 1985.
[17] A. Ganoczy, Teologia della natura, Queriniana, Brescia 1997, p. 22.
[18] G. Colzani, Il futuro del mondo tra processi evolutivi e compimento in Cristo. Per un dialogo tra fede e scienza, in S. Muratore (a cura di), Futuro del cosmo futuro dell’uomo, Messaggero, Padova 1997, pp. 295-296.
[19] W. Pannenberg, Kontingenz und Naturgesetz, in A.M.K. Müller – W. Pannenberg, Erwägungen zu einer Theologie der Natur, G. Mohr, Gütersloh 1970, pp. 33-80; W. Pannenberg, Teologia sistematica. II, Queriniana, Brescia 1994, pp. 11-201.
[20] P. Gisel, La creazione. Saggio sulla libertà e la necessità, la storia e la legge, l’uomo, il male e Dio; Marietti, Genova 1987.
[21] J. Moltmann, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 1986.
[22] J.L. Ruiz de la Peña, Teologia della creazione, Borla, Roma 1988.
[23] A. Ganoczy, Teologia della natura, cit.
[24] Su tutto questo si veda G. Gusdorf, Origini delle scienze umane, ECIG, Genova 1992.
[25] W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito. Ricerca di una fondazione per lo studio della società e della storia [1883], La Nuova Italia, Firenze 1974.
[26] Mentre E. Husserl fermerà la sua attenzione sulla conoscenza di questi contenuti che sono analizzabili anche nella loro immediatezza e concretezza che li distinguono, più tardi M. Scheler amplierà questa intenzionalità fino alla vita emotiva ed etica e ne farà il centro delle sue considerazioni.
[27]Ad affrontare ampiamente il distacco della cultura dalla tematica dell’uomo immagine di Dio, fino a dare e questi termini un significato diverso da quello biblico, sarà W. Pannenberg, Antropologia in prospettiva teologica [1983], Queriniana, Brescia 1987.
[28] Il suo personalismo ha come tema il rapporto e la comunicazione delle coscienze; tra i suoi principali lavori vi sono La réciprocité des consciences: essai sur la nature de la personne, Aubier, Paris 1942; Vers une philosophie de l’amour, Aubier – Éd. Montaigne, Paris 1946; Conscience et Logos: Horizons et méthodes d’une philosophie personnaliste, Éd. De l’Epi, Paris 1962; Intersubjectivitè et ontologie: le defi personnaliste, Nauwelaerts – Béatrice, Louvain – Paris 1974.
[29] L’opera maggiore di L. Lavelle è la sua sintesi metafisica La dialectique de l’éternel présent. Pensata in cinque volumi, è rimasta incompleta per la sua morte: I. De l’Être, Paris 1928; Aubier, Paris 31947 rifatta; II: De l’Acte, Aubier – Montaigne, Paris 1937; III: Du temps et de l’éternité, Aubier – Montaigne 1945; IV: IV, De l’âme humaine, Aubier – Montaigne 1951. Il quinto volume: De la sagesse non è mai stato pubblicato. A questi lavori si possono aggiungere La conscience de soi, Grasset, Paris 1933; La présence totale, Aubier – Montaigne, Paris 1934; Le mal et la souffrance, Plon, Paris 1940; L’erreur de Narcisse, Grasset, Paris 1939); Introduction à l’ontologie, Presses Universitaires de France 1947; De l’intimité spirituelle; Aubier, Paris 1955. Vi sono poi i due volumi dei Traité des valeurs. I: Théorie générale de la valeur, Presses Universitaires de France, Paris 1951; II: Le système des differents valeurs, Presses Universitaires de France, Paris 1955 ripubblicati nel 1991.
[30] Edito per la prima volta nel 1960, sarà tradotto in italiano da Marietti, Torino 1969.
[31] Penso in particolare a J. Monod (+1976), Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea [1970], Mondadori, Milano 1976 che spiega ogni cosa con il “caso”, considerato come sviluppo positivo di una determinata situazione ma senza alcuna logica finalistica; penso pure a F. Jacob (+2013), La logica del vivente. Storia dell’ereditarietà [1970], Einaudi, Torino 1971. Bisogna poi segnalare tutta la problematica del DNA; nel 1953 James Dewey Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins scoprono la struttura del DNA; nel 2003 è stato portato a termine il Progetto Genoma Umano che offre la mappatura dei “geni” umani e nel 2011 è stato decodificato per la prima vota il genoma di un individuo umano. Su queste tematiche si veda G. Tanzella-Nitti – A. Strumia (eds.), Dizionario interdisciplinare di Scienza e fede. Cultura scientifica, filosofia e teologia. II, Urbaniana University Press – Città nuova, Roma 2002; R. Varghese (ed.), Cosmos, Bios, Theos. Scientists Reflect on Science, God and the Origin of the Universe, Life and Homo Sapiens, Open Court, La Salle (IL) 1992; R.J. Russell – W.R. Stoeger – F.J. Ayala (eds.), Evolutionary and molecular Biology: scientific perspectives on divine action, Vatican Observatory Publications and Center for Theology and the Natural Sciences, Vatican City – Berkeley (CA) 1998.
[32] C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, Plon, Paris 1958. A questo lavoro fondamentale aggiungo soltanto L’anthropologie face aux problèmes du monde moderne, Seuil, Paris 2011; Mythologiques. I: Le cru et le cuit, Plon, Paris 1964; II: Du miel aux cendres, Plon, Paris 1966; III: L’origine des manières de table, Plon, Paris 1968; IV: L’homme nu, Plon Paris 1971.
[33] Il suo lavoro antropologico fondamentale resta A. Gehlen, Der Mensch. Seine natur und seine stellung in der welt, Junker und Dünnhaupt, Berlin 1940 (tr. italiana: L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), Feltrinelli, Milano 1983).
[34] A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura, 36.
[35] A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura, 41.
[36] A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura, 78.
[37] F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Payot, Lausanne – Paris 1916 (tr. italiana: Corso di linguistica generale, Laterza, Bari-Roma 1967. Fondamentale per il suo pensiero quest’opera è pubblicata postuma, nel 1916, e raccoglie una serie di note autografe e di appunti di discepoli circa i corsi da lui tenuti tra il 1906 e il 1911.
[38] F. de Saussure, Corso di linguistica generale, 19.
[39] Gen 2,19-20: «19il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. 20Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile».
[40] Saussure motiverà queste scelte in base ad una netta distinzione tra studi diacronici e studi sincronici di linguistica; i primi sono quelli di tipo etimologico che seguono l’evolversi di un concetto nelle diverse lingue e nella loro evoluzione mentre i secondi sono quelli che analizzano un sistema linguistico in un preciso momento storico. In questa prospettiva l’interesse cade su quanto un termine significa ora non sul perché e sul come sia giunto ad assumere quel significato. Per affrontare correttamente la tematica, oltre che tra diacronia e sincronia linguistica, occorrerebbe distinguere anche tra “segni naturali” e “segni convenzionali” (per questi ultimi basta pensare al rapporto tra la carta-moneta ed il suo valore in denaro) ed affrontare poi a fondo il senso ed il valore della conoscenza umana.
[41] Il “significante” è quell’insieme di suoni che, all’interno di una società linguistica, rimandano ad una precisa esperienza; il “significato” è il contenuto concettuale a cui il significante rimanda. Per quanto ogni significato rimandi ad un soggetto, alla sua struttura cognitiva ed emotiva ed alla sua coscienza-conoscenza, resta discusso il realismo o meno dell’insieme linguistico; per lo strutturalismo non va oltre l’organizzazione logica del mondo concettuale mentre per noi è quella realtà extra-linguistica a cui il significante fa riferimento.
[42] H de Lubac, Il mistero del soprannaturale, Il Mulino, Bologna 1967, 273.
[43] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere [1950], Morcelliana, Brescia 1993. Sul suo pensiero si veda A. Kobylinski, “Modernità e postmodernità”. L’interpretazione cristiana dell’esistenza al tramonto dei tempi moderni nel pensiero di Romano Guardini, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1998.
[44] J.F. Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Minuit, Paris 1979 (tr. italiana: La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere [1979], Feltrinelli, Milano 2002). È abituale pensare la post-modernità in opposizione alla modernità ma la precisazione del rapporto tra le due epoche non trova tutti d’accordo. Io intendo la modernità sulla base di tre dati: la perfettibilità illimitata della persona, una concezione della storia come continuo progresso ed una visione della felicità come sua istanza etica. Il fallimento di questo progetto spingerà J. Habermas a ritenere la modernità un progetto incompiuto ed a vedere la postmodernità come una ripresa critica degli obiettivi falliti: J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1987. L’idea oggi più comune vede invece la postmodernità come un’epoca nuova: la frammentazione delle identità, l’incertezza esistenziale e l’instabilità della vita fanno sì che non sia possibile utilizzare le stesse categorie di cui ci si serviva in precedenza.
[45] Ch. Taylor, Ch. Taylor, A Secular Age, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA) – London 2007 (ed. it: L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009; citazione: 711-729). Sul volume si veda l’ampio dibattito di area italiana: The secular Age, in “Euntes Docete” 62 (2009/2), pp. 5-123.
[46] Il percorso di Vattimo comincia con G. Vattimo – P.A. Rovatti, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983; di lui si veda G. Vattimo, Opere complete. I/1-2: Ermeneutica, Meltemi, Roma 2007-2008; Id., Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009; Id., Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1994.
[47] Di Rorty ricordo R. Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton University Press, Princeton 1979 (tr. italiana: La filosofia e lo specchio della natura [1979], Bompiani, Milano 1986); Id., Truth and Progress, Cambridge University Press, Cambridge – New York 1998 (tr. italiana: Verità e progresso. Scritti filosofici, Feltrinelli, Milano 2003); Id., Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge University Press, Cambridge – New York 1989 (tr. italiana: La filosofia dopo la filosofia: contingenza, irania, solidarietà, Laterza, Roma – Bari 1989). Su Rorty si veda inoltre G. Hottois – M- Weyemberg (eds.), Richard Rorty. Ambuigüités et limites du postmodernisme, Vrin, Paris 1994.
[48] Z. Baumann, Postmodern Ethics, Blackwell, Oxford (UK) – Malden (MA) 1993 (tr.iItaliana: Sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano 1996); Id., In Search of Politics, Standford University Press, Redwood City (CA)1999 (tr. italiana: La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli Milano 2000; Id., Postmodernity and its Discontents, New York University Press, New York 1997 (tr. italiana: Il disagio della postmodernità [1997], Mondadori, Milano 2002); Id. La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999 (il testo raccoglie 5 diversi saggi ripresi da due volumi inglesi: Life in fragments. Essays in postmodern morality e Postmodernity and its discontents); Id., Una nuova condizione umana [2003], Vita e Pensiero, Milano 2003.
[49] Ch. Taylor, A Secular Age, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA) – London 2007 (ed. it: L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009). Sul tema si veda l’ampio dibattito di area italiana: The secular Age, in “Euntes Docete” 62 (2009/2), pp. 5-123.
[50] Ch. Taylor, A Secular Age, 531.
[51] Tradizionale ambito di difesa della dignità umana e della qualità della vita.
[52] R. Spaemann, Personen. Versuche über den Unterschied zwischen “etwas” und “jemand”, Klett-Cotta, Stuttgart 1996 (tr. italiana: Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Roma-Bari 2005); J. Ballestreros – E. Fernandez (eds.), Biotecnología y posthumanismo, T. Aranzadi, Pamplona 2007; R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002; I. Sanna (ed.), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, Studium, Roma 2005; G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen. I: Űber die Seele im Zeitalter industrielle Revolution. II: Űber die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution, C.H. Beck, München 1956-1980 (tr. italiana: L’uomo è antiquato. I: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003; J. Habermas, Die Zukunft der menschlichen Natur. Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenetik?, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2001 (tr. italiana: Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002); P. Barcellona – T. Garuti, Il furto dell’anima. La narrazione post-umana, Dedalo, Bari 2008. Sul problema delle biotecnologie si veda M. Tallacchini – F. Terragni, Le biotecnologie. Aspetti etici, sociali e ambientali, Mondadori, Milano 2004.
[53] M.G. Masciarelli, Antropologia e mariologia dopo il Vaticano II, «Theotokos. Ricerche Interdisciplinari di Mariologia» 21 (2013/1), 129-167; in particolare, il tema richiamato ritorna alla pagine 134-140.
[54] M. Buber, Il problema dell’uomo (1943), Elle Di Ci, Torino 1983, 35; Marietti, Genova 2004. Di Buber si veda anche Il cammino dell’uomo secondo l’insegnamento chassidico, Qiqajon, Magnano (VC) 1990.
[55] Di seguito riporto i dati dei due lavori. J.P. Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946 (tr. italiana: L’esistenzialismo è un umanesimo, Armando, Roma 2006); il testo era stato anticipato da una conferenza sul medesimo tema tenuta nel 1945. M. Heidegger, Brief über den Humanismus, Francke, Bern 1947 come appendice al testo Platons Lehre von der Wahrheit (tr .italiana: Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano 1995).
[56] Le interpretazioni del nostro tempo e del cammino delle Chiese al suo interno non sono particolarmente illuminanti, penso a F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, Free Press – Maxwell Macmillan, New York 1992 (tr. italiana: La fine della storia e l’ultimo uomo, BUR, Milano 1996); S. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1997 (tr. italiana: Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997); Ph. Jenkins, The next Christendom: the coming of global Christianity, Oxford University Press, Oxford 2002 (tr. italiana: La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi editore, Roma 2005). Di quest’ultima si veda l’ampia e puntuale recensione di M. Introvigne, La prossima cristianità. L’avvento del cristianesimo globale, «Cristianità» 30(2002), n. 310, 3-10.
[57] M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012.
[58] «Chi conosce la divina Parola conosce pienamente anche il significato di ogni creatura. Se tutte le cose, infatti, «sussistono» in Colui che è «prima di tutte le cose» (cfr Col 1,17), allora chi costruisce la propria vita sulla sua Parola edifica veramente in modo solido e duraturo. La Parola di Dio ci spinge a cambiare il nostro concetto di realismo: realista è chi riconosce nel Verbo di Dio il fondamento di tutto.[31] Di ciò abbiamo particolarmente bisogno nel nostro tempo, in cui molte cose su cui si fa affidamento per costruire la vita, su cui si è tentati di riporre la propria speranza, rivelano il loro carattere effimero» (Verbum Domini 10).
[59] G. Chakraborty Spyvak, A Critique of Postcolonial Reason: Towards a History of the Vanishing Present, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1999 (tr. italiana: Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza, Meltemi, Roma 2004).
[60] Homi K. Bhabha, The Location of Culture, Routledge, London – New York 1994 (tr. italiana: I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001).
[61] Per una conoscenza di questi problemi ricordo ancora I. Chambers, Culture after Humanism: history, culture subjectivity, Routledge, London – New York 2001 (tr. italiana: Sulla soglia del mondo. L’altrove dell’Occidente, Meltemi, Roma 2003); Id., Migrancy, Culture, Identity, Routledge, London – New York 1994(tr. italiana: Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi, Roma 2003). Gli antichi schiavi attraversavano l’Atlantico in catene; i nuovi migranti attraversano oggi il Mediterraneo illegalmente ma in entrambi i casi si tratta di essere “dentro” e “fuori” in un incrocio di memorie ed in una condizione di precarietà. Da qui il dramma dello straniero e la necessità di ritrovare una terra di pace.
[62] Della sua vasta produzione ricordo soltanto E. Lévinas, De l’existence à l’existant, Fontaine, Paris 1947 – Vrin, Paris 1978 (tr. italiana: Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Genova 1986); Id., En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1949. 21967 (tr. italiana parziale dalla 2° edizione: La traccia dell’altro, Pironti, Napoli 1979); Id., Totalité et infini. Essai sur l’exteriorité, Nijhoff, La Haye 1961 (tr. italiana: Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 1980); Id., Difficile liberté. Essais sur le judaisme, Albin Michel, Paris 1963; Id., Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Monpellier 1972 (tr. italiana: Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova, 1985); Id., Autrement qu’être ou Au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974 (tr. italiana: Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano, 1983); Id., Éthique et Infin. Dialogues avec Ph. Nemo, Fayard, Paris 1982 (tr. italiana: Etica e infinito. Dialoghi con Ph. Nemo, Città nuova, Roma 1984); Id., Hors sujet, Fata Morgana, Montpellier –Paris 1987 (tr. italiana: Fuori dal soggetto, Marietti, Genova, 1992).
[63] Biblicamente il volto dell’altro non è quello maestoso del re ma quello indigente, del povero, dell’orfano e della vedova, il cui incontro mi scomoda e mi porta ad una decisione di aiuto o di indifferenza che resta comunque una decisione etica.
[64] Ch. Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano 1992; Id., L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano 2004; C. Castoriadis – Ch. Lasch, La cultura dell’egoismo. L’anima umana sotto il capitalismo, Eléuthera, Milano 2014.
[65] M. Rupnik, «Introduzione», in T. Spidlik – M. Rupnik, Una conoscenza integrale. La via del simbolo, Lipa, Roma 2008. –
[66] P. Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt am Mein 1983 (tr. italiana: Critica della ragion cinica, Garzanti, Milano 1992); W. Muhs, Gli aforismi del cinismo, Mondadori, Milano 1992.
[67] E. Minkowski, Ver une cosmologie, Aubier, Paris 1967, 4.
[68] A questo proposito richiamo soltanto la prima teologia politica di J.B. Metz come particolarmente pertinente: lega infatti le trasformazioni dell’epoca moderna ad un soggetto, quello borghese. In questo senso si vedano J.B. Metz – J. Moltmann . W. Ölmüller, Kirche in Prozess der Aufklärung: Aspekte einer neuen “politischen Theologie”, Kaiser, München 1970 (tr. italiana: Una nuova teologia politica, Cittadella, Assisi 1971); I.B. Metz, Glaube in geschichte und Gesellschaft. Studien zu einer praktischen Fundamentaltheologie, M. Grünewald, Mainz 1977 (tr. italiana: La fede nella storia e nella società. Studi per una teologia fondamentale pratica, Queriniana, Brescia 1978. Più tardi la teologia politica si arricchirà delle sfide portate dal pensiero marxista, dall’evento della shoah e del dopo-Auschwitz e, soprattutto, dei drammi del terzo mondo.
[69] Alla base sta il lavoro sociologico di M. Mauss, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques pubblicato nel 1923 sulla rivista L’Année Sociologique e ristampato dalle Presses universitaires de France, 2012 (tr. Italiana: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1991, 153-292). Si tratta di uno studio sul matrimonio e su quanto socialmente ne deriva. Il nostro dibattito si appoggia invece su J.L. Marion, Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, Presses universitaires de France, Paris 1997 (tr. italiana: Dato che. Saggio per una fenomenologia del dono, SEI, Torino 2001). Di J.L. Marion si veda pure: Prolégomènes à la charité, La Différence, Paris 1986; J. Derrida, Donner le temps. La fausse Monnaie, Galilée, Paris 1991 (tr. italiana: Donare il Tempo. La moneta falsa, Cortina, Milano 1996); A. Caillé, Anthropologie du don. Le tiers paradigme, Desclée de Brouwer, Paris 2000 (tr. italiana: Il terzo Paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1998); J. Godbout, L’esprit du don, La Découverte, Paris 2000 (tr. italiana: Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 2002). Di J. Godbout si vedano anche Le langage du don, Fides, Montréal 1996; Le don, la dette et l’identité. Homo donator versus homo oeconomicus, La Découverte, Paris 2000; P. Ricoeur, Amour et justice, JBC Mohr, Tübingen 1992 e ristampato da Éd. Points, Paris 2008 (tr. italiana: «Giustizia e amore: l’economia del dono», in D. Jervolino, Ricoeur. L’amore difficile, Studium, Roma 1995).
[70] R. Mancini, Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella, Assisi 1996; Id., L’uomo e la comunità, Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (BI) 2004; Id., L’amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Cittadella, Assisi 2005.
[71] J. Ratzinger, Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das apostolische Glaubensbekenntnis, Kösel, München 1968 (tr. italiana: Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1969, 138-146).
[72] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 139. Si veda il testo di Agostino, De Trinitate 5, 5, 6: «in Dio nulla ha significato accidentale, perché in lui non vi è accidente, e tuttavia non tutto ciò che di lui si predica, si predica secondo la sostanza. […]Ecco perché, sebbene non sia la stessa cosa essere Padre ed essere Figlio, tuttavia la sostanza non è diversa, perché questi appellativi non appartengono all’ordine della sostanza ma della relazione; relazione che non è un accidente perché non è mutevole».
[73] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 140-141.
[74] K. Hemmerle, Thesen zu einer trinitarischen Ontologie, Johannes Verlag, Einsiedeln 1976 (tr. italiana: Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento del pensiero cristiano, Città Nuova, Roma 1996, 37). Molto più esitante è W. Kasper che, dopo un’analisi dei rapporti natura-grazia, scrive: «ora il problema è quello di stabilire in che modo il problema di Dio stia in rapporto con il problema dell’essere, se si debba trattare il problema di Dio nell’orizzonte del problema dell’essere o questo entro l’orizzonte del problema di Dio» (W. Kasper, Der Gott Jesu Christi, M. Grünewald, Mainz 1982 (tr. italiana: Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1984, 97).
[75] H.U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästethik. Bd. III/1: Im Raum der Metaphysik. 2 Teil: Neuzeit, Johannes Verlag, Einsiedeln 1965 (tr. Italiana: Gloria. Una estetica teologica. V: Nello spazio della metafisica. L’epoca moderna, Jaca Book, Milano 1978, 25).
[76] S.D. Goitein, JHWH the Passionate, «Vetus Testamentum» 6 (1956) 1-9.
[77] Abraham J. Heschel, The Prophets, Harper & Row, New York 1962 (tr. italiana: Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 1981,19).
[78] Abraham J. Heschel, Il messaggio dei profeti, 19.
[79] J. Moltmann, Trinität und Reich Gottes. Zur Gotteslehre, Kaiser, München 1980 (tr. italiana: Trinità e regno di Dio. La dottrina su Dio, Queriniana, Brescia 1983, 174).
[80] Si veda H. Mühlen, Abendländische Seinsfrage als der Tod Gottes und der aufgang einer neuen Gotteserfahrung, Schöningh, Paderborn 1968 (tr. italiana: Problema dell’essere e morte di Dio. Il problema occidentale dell’essere come morte di Dio ed i primi albori di una nuova esperienza di Dio, Città nuova, Roma 1969). Si veda anche E. Jüngel, Einführung in Leben und Werk Karl Barths, in Id., Barth-Studien, Benzinger – Mohn, Zürich-Köln – Gütersloh 1982; Gottes Sein ist im Werden: verantwortliche Rede vom Sein Gottes bei Karl Barth, Mohr, Tübingen 1965 (tr. italiana di entrambi i lavori: L’Essere di Dio è nel divenire. Due studi sulla teologia di K. Barth, Marietti, Casale Monferrato 1986).
[81] W. Kasper, Barmherzigkeit. Grundbegriff des Evangeliums . Schlüssel christlichen Lebens, Herder, Freiburg 2012 (tr. italiana: Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013; J. Sobrino, El principio misericordia. Bajar de la cruz a los pueblos crucificados, Sal terrae, Santander 1992; M. Legido, Misericordia entrañable: historia de la salvación, anunciada a los pobres, Sigueme, Salamanca 1987; G. De Luca, La misericordia di Gesù: percorsi di umanesimo nel vangelo di Luca, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013; A. Cavallina, Misericordia e giustizia: letture sul perdono nei due Testamenti, Il segno dei Gabrielli, S. Pietro in Cariano (VR) 1998; S. Chialà – L. Cremaschi (eds.), Misericordia sempre: casta meretrix, Ed. Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (BI) 1998.
[82] H. Groschopp (ed.), Barmherzigkeit und Menschenwürde: Selbstbestimmung, Sterbekultur, Spiritualität, Alibri, Aschaffenburg 2011;
[83] Volker Küster, A Protestant Theology of Passion. Korean Minjung Theology Revisited, Brill, Leiden – Boston 2010; P. Yonggap Jeong, Mission from a Position of Weakness, P. Lang, New York 2007.
[84] W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo, 26.
[85] Manifesto comparso sulla terza pagina della Süddeutsche Zeitung del 24 dicembre 2007; testo in J.B. Metz, «Compassion. Zu einem Weltprogramm des christentums im Zeitalter des Pluralismus der religionen und Kulturen», in J.B. Metz – L. Kuld – A. Weisbrod (eds.), Compassion. Weltprogramm des Christentums. Soziale Verantwortung lernen, Herder, Freiburg 2009, 9-18.
[86] W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo, 179-180.